Una volta, una settantina di anni fa, gli abitanti di Campolongo passavano la loro vita, tutta la loro vita, in paese; per loro la chiesa aveva una grande importanza sia come edificio e luogo di culto, sia come comunità di fedeli cristiani.
Allora la chiesa, con il suo campanile e con il suo orologio, scandiva le ore, i tempi della giornata e, con le sue campane segnalava gli avvenimenti più importanti del paese (nascite, battesimi, comunioni, cresime, matrimoni e morti) e, a ore fisse, invitava i fedeli alla Messa e alle altre funzioni religiose.
I paesani, ferventi fedeli cristiani, andavano tutti o quasi tutti in chiesa e additavano quel qualcuno che non ci andava come un infedele, come un soggetto riprovevole.
Normalmente le varie cerimonie liturgiche avevano luogo dentro la chiesa stessa ma a volte si svolgevano all’aperto, nella piazza antistante la chiesa o lungo le strade del paese.
Nell’arco dell’anno c’erano varie processioni, tutte con una ricorrenza annuale.
Con la nostra piccola esperienza e con il nostro fiuto, noi ragazzi avevamo imparato presto a “sentire” quando stava per arrivare una festa con la processione: ce lo preannunciavano le stagioni con i cambiamenti del clima e dei colori della natura, il ricordo delle
ricorrenze festeggiate l’anno prima e soprattutto le pulizie in chiesa e i preparativi per rimettere in sesto crocefissi, statue e immagini di santi, portantine, baldacchini e stendardi.
Per quanto possibile alle processioni prendevano parte tutti, sia l’officiante che i fedeli, vi partecipavano con abbigliamenti diversi a seconda dell’importanza della festa. Quelle processioni erano per tutti una manifestazione di fede; lo erano anche per noi, ma in ognuna di esse noi ragazzi vedevamo oltre all’aspetto sacro, anche qualche elemento profano.
Le Processioni di Primavera ed Estate
All’aprirsi della stagione, in primavera c’era la Processione per la
benedizione dei campi con la quale si cercava di propiziarsi il Signore per un buon raccolto di tabacco.
Questa processione un giorno andava dal centro del paese verso sud, fino alla contrada Vialetti, e un giorno andava dal centro verso nord, fino alla contrada Contarini.
Per quell’occasione i paesani mettevano sui loro campi un altarino fatto di una sedia che veniva coperta con un lenzuolo bianco e di un quadro con l’effigie (della Madonna o di un santo) e, su un piattino vi lasciavano un’offerta per la chiesa.
Per i chierichetti era una giornata di preghiera ma anche di movimento, di corse perché a turno, correndo sui campi e saltando muri e fossati, dovevano passare per i vari altarini a prendere l’offerta
per la chiesa, la mettevano in tasca, quasi quasi facendo una gara a chi ne raccoglieva di più; e poi finita la processione, entravano in sagrestia e là dovevano svuotare le tasche su un grande bancone.
Con la quaresima si entrava già nell’atmosfera della passione.
Fino a Pasqua, ogni venerdì sera c’era la “Via Crucis” e cioè una processione che aveva luogo all’interno della chiesa stessa.
Durante la cerimonia ad un certo momento, mentre i fedeli rimanevano ai loro posti, il sacerdote officiante e i chierichetti passavano davanti ai quadri della passione che erano appesi alle pareti.
Il sacerdote cantava davanti a ogni quadro “Stabat Mater Dolorosa”; i fedeli ascoltavano e poi, quasi per partecipare al dolore di quella madre particolare, cantavano a loro volta, tutti in coro:
“Santa Madre, deh, Voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore”.
Quelle soste davanti alle varie stazioni della “Via Crucis” e quei canti creavano un’atmosfera di dolore e di lutto ed erano un’introduzione alla settimana santa, ed una preparazione dello Spirito ai misteri della sofferenza e della morte di Cristo, figlio di Dio.
Quel mistero era una verità alla quale i fedeli dovevano credere ma che
nello stesso tempo, proprio perché mistero, era anche incomprensibile.
La domenica delle Palme c’era una processione breve che si limitava a fare il giro della piazza e finiva davanti alla porta principale della chiesa. Là, ciascuno, con il suo ramoscello di ulivo in mano, partecipava a vari canti sui quali emergeva il duetto tra il sacerdote officiante e “Bin Scarparoto”.
Aperte le porte, l’officiante, i chierichetti e i fedeli entravano in chiesa; e là, fuori dal mondo e nel silenzio, ognuno poteva raccogliersi meglio in preghiera.
Ma una volta, proprio in un momento di silenzio, un ragazzo si è messo una fogliolina di ulivo tra i due pollici e soffiandoci dentro, ha lasciato partire un fischio che ha provocato, tra i fedeli, un generale mormorio di disapprovazione e tra gli altri ragazzi una risatina solo a stento trattenuta.
Allora, un anziano, che era nel primo banco, si è girato e ha lanciato all’autore del fischio e agli altri ragazzi, uno sguardo micidiale che ha riportato in chiesa silenzio e concentrazione.
Alla fine terminata la cerimonia, tutti tornavano a casa e si portavano
il loro ramoscello di ulivo benedetto che conservavano accanto a un crocefisso, o ad una immagine sopra la testata del letto come segno di benedizione divina, di protezione e di pace.
Con la settimana di passione arrivava la processione del Venerdì
Santo.
Per tradizione, per quella processione c’era la raffigurazione delle varie fasi della passione di Cristo con figure viventi e cioè con ragazzi e ragazze del paese.
Bisognava fare spade e lance di legno, elmetti di carta e scudi di
cartone per i ragazzi che avrebbero fatto la parte dei soldati, vestiti bianchi ed ali per quei bambini che avrebbero fatto la parte degli angeli, e in più parrucche e barbe per quei giovani che avrebbero dovuto fare la parte degli apostoli, per l’Ultima Cena.
C’era lavoro per lo meno per un paio di settimane e quindi bisognava ricominciare in tempo coni preparativi.
C’erano due signore intraprendenti che facevano le registe e i ragazzi vi partecipavano con entusiasmo sia perché si vedevano già nel ruolo di qualche personaggio della passione e sia anche perché la processione aveva luogo di notte, col buio, e quindi in un’atmosfera speciale.
Quella processione iniziava dopo il tramonto, all’imbrunire; i fedeli,
con un contegno dignitoso, camminavano lentamente mormorando
le varie preghiere, concentrati grazie anche al buio che non permetteva
distrazioni. L’atmosfera diventava sempre più suggestiva: al ritorno dalla contrada Vialetti venivano accese delle candele sui davanzali delle finestre delle case; in Gualiva qualcuno accendeva un fuoco come per partecipare con la sua luce alla cerimonia liturgica; quando poi la processione arrivava tra la casa dei Malvezzi e la bottega dei Cavallin, là dove erano state predisposte le scene rappresentanti la passione di Cristo, qualcuno dava fuoco a un grande mucchio di cespugli di ginepro e il falò che ne derivava illuminava tutta la vallata e permetteva il vedere con chiarezza i ragazzi e le ragazze che partecipavano ai vari quadri; e là c’era un momento di distrazione perché ognuno dei partecipanti alla processione cercava di individuare – tra i soldati, gli angeli, gli apostoli – il proprio figlio o il proprio nipote.
Quando poi si arrivava in piazza, davanti alla chiesa, si vedeva in Contrà Giusti una grande croce che, spalmata di pece, bruciava in tutte le sue parti; quella scena di una croce in fiamme chiudeva la processione del Venerdì Santo, ma non finiva là la serata di passione
perché, finita la cerimonia liturgica, i fedeli passavano tutti per l’Oratorio a far visita al Santo Sepolcro; anzi alcuni di essi, dandosi il turno, facevano la veglia per tutta la notte.
Tra maggio e giugno arrivava la festa del “Corpus Domini”, una delle festività più importanti della chiesa cattolica.
Anche per il “Corpus Domini” c’era una processione, una processione che aveva una solennità tutta particolare.
I preparativi per quella festa iniziavano un paio di settimane prima anche perché, per quell’occasione, venivano usati dei paramenti ad hoc: il sacrestano tirava fuori da un grande armadio della Sagrestia un ostensorio dalle dimensioni eccezionali e pesante, un piviale di broccato intessuto di fili d’oro e d’argento (e quindi pure pesante), preparava anche un grande gonfalone e pure un baldacchino; i “capati” a loro volta, tiravano fuori la loro divisa composta da un camicione lungo e bianco e di una cappa rossa.
Con tutti questi paramenti ed insegne speciali la processione era davvero solenne e lo era tanto più in quanto delle ragazzine vestite di bianco spargevano sulla strada dei petali di rosa che rendevano l’aria profumata.
I fedeli camminavano lentamente, gli anziani in particolare con le facce compunte e con sguardi severi che non ammettevano distrazioni o mancanze di riguardo neppure dei passanti che dovevano fermarsi, togliersi il cappello e inginocchiarsi.
A questo proposito mi ricordo che una volta un passante in bicicletta non si è fermato, ha tirato dritto; c’è stato subito un vociare di disapprovazione e uno dei partecipanti alla processione si è messo a rincorrere quel passante infedele che è riuscito a sfuggire “indenne”.
Il 13 giugno c’è la festa di Sant’Antonio e c’era allora una processione nella quale gli uomini portavano a spalle, sopra una portantina, la statua del Santo, quattro giovani portavano la statua di San Luigi e quattro ragazze portavano la statua di Sant’Agnese.
Quella processione la ricordo sia perché venivano festeggiati contemporaneamente tre santi, sia perché al rientro, in chiesa c’era un profumo di gigli intensissimo, quasi inebriante.
In luglio c’era la festa della Madonna del Carmine, la patrona del paese. In quell’occasione si portava in processione la statua della Madonna.
Era estate e faceva caldo; i paesani andavano in processione naturalmente col “vestito da festa” ma ne avevano uno solo per tutte le stagioni e quindi quel “vestito da festa” che si mettevano per la Madonna del Carmine era lo stesso che si mettevano per Natale, era un vestito pesante; e quindi i fedeli con quella processione, si guadagnavano un posto in paradiso non solo per le tante preghiere, per l’onore che tributavano alla Madonna, ma anche per il sacrificio che sopportavano con quei vestiti pesanti.
Noi ragazzi partecipavamo a quella processione con fede, senza lasciarci distrarre troppo, ma quando di ritorno dalla Contrada Vialetti, arrivavamo in piazza, in prossimità della chiesa, non potevamo non vedere i tavoli pieni “de bromboi”, il carrettino del gelataio e la giostra che sembravano là ad aspettarci; per un momento quelle presenze ci distraevano ma, entrati in chiesa la festa e la concentrazione avevano il sopravvento sulla nostra debolezza di ragazzi.
In agosto nella stagione delle angurie, arrivava la festa di San Rocco, il patrono della comunità di Oliero. Per tradizione, i fedeli di Campolongo andavano in processione ad Oliero proprio per venerare quel santo.
Erano vestiti in maniera semplice e il sacerdote non aveva paramenti di festa; si partiva di buon’ora e si camminava di buon passo; il sacerdote recitava preghiere e intonava dei canti, i fedeli cantavano tutti sottovoce, quasi bisbigliavano ma c’era una signora anziana che cantava a squarciagola o, come diceva un mio zio, cantava “come ‘na caeandra”.
In chiesa, ad Oliero, i fedeli pregavano; poi finita la messa, le donne
tornavano subito a casa, in ordine sparso; noi ragazzi ci aggiravamo tra le “montagne” di angurie e di meloni (i frutti particolari quella
sagra), guardavamo con tanta voglia le fette di anguria rosse messe in fila sui tavoli e ce ne facevamo una scorpacciata (ma solo con la mente!); gli uomini, invece, se ne andavano in una certa osteria
a “magnar ‘e tripe”.
Le Processioni d’Autunno
In autunno c’era la visita alla Madonnetta in montagna.
I paesani ci andavano di buon’ora e in ordine sparso, salendo per una mulattiera fatta durante la prima guerra mondiale. Il percorso era relativamente duro ma i fedeli ci andavano con entusiasmo.
Lassù veniva celebrata la messa; la chiesa è piccola e allora molti fedeli vi assistevano nel piazzale circostante.
Dopo la benedizione e l’annuncio che la messa era finita, i paesani se ne tornavano a casa per riprendere il lavoro quotidiano; e di solito anch’io facevo così ma una volta, quando tutti se ne erano andati, il parroco mi ha proposto di andare con lui a Rubbio a “magnar i osei”.
Per me quella proposta era un ordine e quindi ci sono andato. Ci siamo incamminati di buona lena salendo per la mulattiera. Il parroco, un appassionato di caccia, aveva in spalla una doppietta; ogni tanto si fermava, guardava in aria o nel bosco e quando sentiva o vedeva un uccello si toglieva la doppietta dalla spalla, si metteva in posa, mirava e sparava.
All’inizio quegli spari mi divertivano perché mi davano la sensazione di festa, di sagra, di baracconi, di tiro a segno; ma poi, quando presi in mano un uccello che, colpito era stramazzato a terra e sentii che il suo corpo, ancora caldo, era senza vita ebbi una stretta al cuore. Poi si ripartiva e dopo un po’ eccoti un’altra schioppettata ed eccoti un altro uccello morto.
Ognuna di quelle schioppettate era per me un colpo al cuore ma non avevo coraggio né di esprimere quel mio stato d’animo, né di criticare il comportamento di un cacciatore che era sacerdote. Per me era un gran dilemma che non sapevo come sbrogliare.
Per fortuna, ad un certo momento mi è venuto in mente San
Francesco che, come avevo imparato in chiesa e a scuola, aveva
lodato il Signore con tutte le sue creature e che aveva una simpatia particolare per gli uccelli. Il pensiero e l’amore di San Francesco per
gli uccelli e la compassione per quelle creature allegre e innocenti che erano state colpite a morte mi hanno convinto di essere dalla
parte della ragione.
Arrivati in cima alla “Busa della Volpe” ci siamo immessi sulla mulattiera che da Cima Campolongo porta a Rubbio, e, arrivati alla nostra meta, siamo entrati in una trattoria e il parroco ha ordinato “poenta e osei” per entrambi. Quel piatto era ottimo e me lo sono gustato.
Ma ad un certo momento, mentre mangiavo, ho sentito dentro di me
una voce, ho prestato attenzione e ho capito che era la voce di San
Francesco il quale mi ha detto: “Ma dov’è la tua coerenza? Prima dici di voler bene agli uccelli e poi te li mangi? E pure con gusto!”. Ho dovuto riconoscere di essere stato incoerente; però coerente con la mia incoerenza, “i osei” me li sono mangiati lo stesso!
Quella sera, a letto, rivedendo la mia giornata ho pensato che quella processione alla Madonnetta era stata un atto di fede, una manifestazione sacra ma che per me aveva avuto un finale profano.
L’ultima processione dell’anno era quella della “commemorazione dei morti”. Usciti dalla chiesa i fedeli, tutti già intabarrati, facevano il giro della piazza ed entravano subito nel camposanto; ufficialmente non era ancora inverno ma di solito faceva già freddo, un freddo umido; a volte c’era già la neve e comunque si poteva vederla sempre sulle Mellette.
Finite le preghiere fatte insieme, i fedeli si disperdevano, ognuno andava a far visita alle tombe dei suoi cari, e vi sostavano a lungo in silenzio; era un’occasione per ciascuno per ritornare in rapporto con i propri cari, per pregare per loro e per pensare al senso della vita e della morte.
Con il mese di novembre le processioni dell’anno erano finite ma i paesani continuavano a partecipare alle cerimonie liturgiche in chiesa e continuavano a vivere la loro vita quotidiana pieni di fede e di speranza.
Giovanni Lovato – Articolo pubblicato ne Il Vento del Brenta N° 1 AGOSTO 2005 e N° 2 DICEMBRE 2005
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